L’odore dell’India

Pier Paolo Pasolini
Garzanti, Milano 2009


Si ripete così la vecchia storia: il mondo stupendo, e orrendo e io che lo racconto, ricco, fin troppo ricco, degli strumenti necessari a raccontarlo.”
Sulla carta intestata di un albergo di Benares, Pasolini riflette sui termini del suo incessante dialogo con il mondo, la sua instancabile voglia di percorrerlo e di raccontarlo. E’ dentro un viaggio particolare, un viaggio che lo porta all’inizio del 1961 a girare l’India e a raccontarla per il quotidiano Il Giorno, spinto dalla voglia di verificare gli effetti delle riforme della “linea della speranza” di Pandit Nehru.
Un viaggio fatto con amici particolari, perchè i compagni di questo come di altri viaggi in giro per il mondo, sono Alberto Moravia ed Elsa Morante. Anche Moravia invia le sue impressioni al Corriere della Sera ed i libri che escono fuori da questo viaggio sono in qualche modo gemelli complementari: lucido e preciso quello di Moravia, Un’idea dell’India, istintivo e apparentemente irregolare questo di Pasolini, entrambi pubblicati per la prima volta nel 1962.
Ma come appare l’India agli occhi di Pasolini? Come appare questo paese da pochi anni divenuto indipendente, in un periodo attraversato da importanti riforme in Italia e certo ancora lontano da quella ondata di protesta che ne farà la méta di una moltitudine di giovani alla ricerca di qualcosa di altro e di diverso? L’India è un grande paesone senza misteri agli occhi di Pasolini, un paesone di 400 milioni di abitanti in rapida crescita demografica, con poche città significative e una struttura industriale totalmente assente, una piccola borghesia in formazione, racchiusa in sé stessa, del tutto incapace vista la sua esiguità numerica a fronte di una biblica massa di diseredati di poter esercitare una qualsiasi azione positiva. Un paese dove uno studente allevato a Cambridge sembra del tutto incapace e distante per affrontare problemi di povertà, emarginazione, degrado di così grande intensità, e dove una speranza di sollievo viene da persone chiuse nella loro illusione di “svuotare il mare con un ditale”: una suora, Teresa, che a Calcutta dà sollievo con le sue sorelle alla moltitudini di lebbrosi, e che appare agli occhi di Pasolini il volto della bontà vera come la serva Francesca proustiana, o padre Wilbert che si occupa di piccoli orfani, e a cui Pasolini affida il piccolo Revi, che rifiuta perfino le sue rupie, perché sarebbero preda di uomini più grandi e cattivi.

Uomini sorridenti per dolcezza più che per felicità gli indiani, miti e gentili: in un paese senza religione di Stato, dove perfino il loro capo Nehru si dichiara senza religione, questa agli occhi di Pasolini resta viva nelle sue forme povere e antiche, più come retaggio e lascito nelle persone che come vera professione di fede. Le città che incessantemente attraversa a piedi, sono animate da una moltitudine di diseredati, afflitti da una povertà medievale, una folla di questuanti che dorme per strada, una folla di “accattoni” che proprio al ritorno girerà, una folla che gli appare senza alcuna speranza, proprio a lui che nel racconto della marginalità, dei diseredati ne aveva fatto emergere sempre speranza di riscatto e di laica redenzione.

Tutti i portici, tutti i marciapiedi rigurgitano di dormienti. Sono distesi per terra, contro le colonne, contro i muri, contro gli stipiti delle porte. I loro stracci li avvolgono completamente, incerati di sporcizia. Il loro sonno è così fondo che sembrano dei morti avvolti in sudari strappati e fetidi.
Sono giovani, ragazzi, vecchi, donne coi loro bambini. Dormono raggomitolati o supini, a centinaia. Qualcuno è ancora sveglio, specialmente dei ragazzi: sostano ad aggirarsi o parlare piano seduti alla porta di qualche negozio chiuso, sugli scalini di qualche casa. Qualcuno si sta sdraiando in quel momento, e si avvolge nel suo lenzuolo, coprendosi la testa. Tutta la strada è piena del loro silenzio: e il loro sonno è simile alla morte, ma a una morte, a sua volta, dolce come il sonno.”
orlando di marino


 
 
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