Questa nostra Italia

Corrado Augias
Einaudi, Torino 2017


“Nazione voleva dire una comunità di popolo tenuta insieme da un legame che non era più né il sovrano, né la religione né la condizione sociale, ma un’identità nutrita di storie e memorie comuni, lingua, territorio, costumi, cibo perfino.”
Senza la poesia di Leopardi, la sua capacità di navigare con la mente in un mondo altro, alto e parallelo, le viuzze e la piazzetta di Recanati sarebbero banali, comuni a tanti altri piccoli centri dell’Italia; in questi luoghi divenuti magici per le poesie che li hanno raccontati, Corrado Augias riflette su un passo politico dello Zibaldone, e traccia il filo che tiene unito questo singolare viaggio in Italia. Un viaggio non viaggio, nel senso che non si caratterizza come un baedeker, un diario in cui raccontare l’incessante andare, come pure accade per altri scrittori del secondo novecento, come Pier Paolo Pasolini o Guido Piovene. È un viaggio che si muove sulle note della autobiografia e del racconto di una Italia vista e attraversata in anni di lavoro da giornalista colto e raffinato, un viaggio per cercare di comprendere come nel secondo dopoguerra, un paese contadino e patriarcale diventi in breve tempo uno dei paesi più industrializzati al mondo, un paese dove vecchi rapporti sociali e familiari vengono rapidamente capovolti da grandi e rapide conquiste sociali; un viaggio in questa Italia per cercare di comprenderne la speranza delusa del presente, gravata da un lungo periodo di crisi, chiamando in soccorso la storia, per cercare di capire perché in altri momenti difficili questo paese ce l’ha fatta.

Il racconto si compie attraverso belle pagine di poesia e letteratura, e tocca le principali città italiane: la Torino raccontata attraverso l’indirizzo della casa editrice Einaudi, la Milano di Giorgio Gaber, pratica e attiva, che non a caso sceglie come vescovo un tedesco nemmeno battezzato, Ambrogio, proprio per la sua rettitudine e capacità; Genova capoluogo di una piccola regione dove ogni fazzoletto di terra è conteso al mare e all’incombere degli appennini e dove i fatti del giugno del 1960, segnano una svolta nella politica del dopoguerra italiano; la Trieste dei grandi scrittori che guardano all’Europa e che diviene il simbolo di quanto pericolo possa derivare dall’evolvere in nazionalismo del concetto stesso di nazione;  la Firenze capitale per pochi anni di un giovane Regno, dove i pesanti interventi haussmanniani necessari a trasformarla in una città moderna non ne cancellano definitivamente i tratti della propria storia, la Firenze con i suoi geni universali che tracciano la linea della modernità, da Michelangelo a Dante, da Machiavelli a Leon Battista Alberti. E poi Napoli che è più facile “riconoscere che conoscere” che si rivolta nel 1943 contro i soprusi di un burocrate nazista che la governava, per insofferenza verso un potere ottuso più che per raggiungere un obiettivo militare o politico.

Nella dotta Bologna, dove un giovane Carducci venne messo in cattedra nel 1860, da un ministro come Terenzio Mamiani, che si muoveva nel disperato tentativo di costruire una identità e una classe dirigente per uno Stato da poco formatosi e tenuto insieme solo dalla lingua comune, e che proprio nella istruzione pubblica trova una delle leve principali per definire il suo carattere e la sua futura identità. Una identità che si muove in linea con la storia, per quella Italia dove in passato era sorto l’Umanesimo.
“È questo il connotato di fondo dell’Umanesimo, un movimento, un sommovimento, che ha reso memorabili il XV secolo e il nostro paese, cominciato però molto prima, già con Petrarca. È la famosa Eccezione italiana titolo di un saggio dello studioso americano Ronald G. Witt di cui credo di poter riassumere la tesi con queste parole: l’Umanesimo nacque in Italia e non altrove perché nella penisola l’insegnamento non è stato sempre monopolio degli uomini di Chiesa. Fu la laicità delle scuole a permettere di guardare il mondo con occhi nuovi.”
orlando di marino


 
 
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