Paesaggio con rovine

Generoso Picone
Mondadori, Milano 2020


Chissà la faccia che avrà fatto Igor Stravinsky, quando giunto alle porte del Castello di Gesualdo se ne vide negare l’accesso da parte degli eredi del Principe Carlo Gesualdo, il grande compositore di madrigali, che lì vi si era rifugiato dopo aver assassinato la moglie e il suo amante nella notte del 16 ottobre del 1590; Stravinsky era lì in una sorta di laico pellegrinaggio per quel maestro che aveva eletto a riferimento e ispiratore della sua musica, a cui dedicherà una composizione nel 1960, non a caso intitolata Monumentum. Dall’altra parte del portone, si ignorava chi fosse uno dei più grandi compositori del novecento, si ignorava quanto grande fosse stato il loro antenato.

E’ solo uno degli episodi che l’autore racconta in questo libro che si legge come un romanzo, una autobiografia del terremoto come recita il titolo del primo capitolo: senza indice dei nomi né dei luoghi, senza note a piè di pagina, come si addice ad una vera autobiografia e forse, capiterà di pensare leggendolo, con la piacevole scoperta che sia almeno punteggiato e non un joyciano flusso di coscienza, perché tale a volte potrebbe apparire.

Il giovane cronista de Il Mattino Generoso Picone, ventiduenne in quel 23 novembre 1980, inizia proprio dalla mattina del giorno dopo un racconto di quella catastrofe che non si sarebbe mai interrotto e che giunge oggi alle pagine di questo libro, che ci parla di quello che accadde quella sera e da quella sera, ne analizza gli scenari e i problemi, facendosi aiutare da innumerevoli citazioni, libri, documenti, chiamati a sostenere un racconto che si dipana attraverso i soccorsi e la ricostruzione, i ritardi e le mancanze, le ruberie e le miserie, ma soprattutto il dolore di una tragedia che non riesce a passare, non riesce a sedimentare, non produce memoria utile per altre catastrofi, una tragedia che non ha mai trovato, non a caso, un monumento fisico comune che potesse ricordarla.

I luoghi e le immagini del “cunto de li cunti”, raccontati dal governatore di Avellino e signore di Montemarano Giambattista Basile, il mare di montagna che si osserva da Cairano set cinematografico del film La donnaccia, la Trevico di Ettore Scola, le sperimentazioni teatrali di Bruno Cirino e il rito arcaico della passata riscoperto da Alfonso Marino Di Nola a Sant’Andrea di Conza, l’arte inquieta di Ettore De Conciliis e del suo Murale della pace; e ancora i “semilavorati intellettuali” come Simon Rodia e le sue Watt Towers, il genio di Salvatore Ferragamo, l’immaginazione e la leggerezza di Franco Dragone, tutti piccoli tasselli di una terra che infonde caparbietà e determinazione nei suoi figli.

Lo straniamento, il mancato riconoscimento di sé e della propria storia, come accade agli eredi Gesualdo, sembra attraversare l’Irpinia, che l’autore conosce profondamente, che porta con sé nel cuore e nella penna, e trasfonde in questo libro che è una non comune prova di scrittura civile, un tentativo, riuscito, di non fermarsi sulla soglia della descrizione come unica possibilità di narrare un evento, ma rivendicando la scelta e la possibilità offerta allo scrittore, di addentrarsi in una interpretazione, utile a comprendere quello che è accaduto e ad indirizzare l’agire presente. È un atto di responsabilità oltretutto, a cui l’autore sente di non potersi sottrarre, perché la sua biografia non gli consentirebbe il rifiuto di James Baldwin raccontato in un aneddoto del libro.

Si è parlato molto in questi mesi di epidemia di una possibile riscoperta dell’Italia interna come risposta alle difficoltà di vivere in grossi centri urbani, di una occasione per rivitalizzare i centri minori che soffrono dello spopolamento sfruttando le opportunità connesse al lavoro agile e a distanza. Ci sono stati articoli e prese di posizione con interventi autorevoli, da Stefano Boeri a Rem Koohlaas. Su questo Generoso Picone ha una idea molto precisa, che è un precipitato di quanto è accaduto e di quanto è preferibile non si ripeta:

Meglio tardi che mai ci si accorge che i borghi possono avere un domani. Bene. A condizione, però, che si eviti il nauseabondo romanticismo estetizzante che avvolge le piccole comunità, con l’addensarsi delle mille furberie compassionevoli di chi allestisce elegie un tanto al chilo: nuovo Umanesimo, nuovo Rinascimento, nuova Civiltà. Slogan vuoti e fuorvianti, formulette tristi che si beffano dell’evidenza del benché minimo principio di realtà e nascondono nella prospettiva del tornaconto di convenienza la concretezza grave delle questioni da affrontare.
Li vedo già, gli immancabili professionisti del Rinnovamento, i banditori del post animismo, i sacerdoti della sacralità della miseria, i profeti dei villaggi del turismo emozionale, i promotori dell’Irpinia come parco a tema della ruralità. Pronti alla ricerca del nuovo ingaggio, rapaci, cinici, spregiudicati e famelici, perfetti discepoli dei loro maestri, apprenditi stregoni di una lezione che non dev’essere bastata a mostrare i suoi effetti per venie compresa e cancellata: qualche pagina di Ernesto De Martino letta alla rovescia, la rimasticatura grossolana di filosofia del paesaggio, la furbizia collaudata di chi si candida a essere ecocompatibile, ecosostenibile, ecoovvio e comunque eco ma dietro rilascio di robusta fattura. Sono quelli che Fabrizio Barca chiama gli architetti che vanno in giro come i personaggi dell’
Ecce Bombo di Nanni Moretti, a vedere gente, muoversi, incontrare, fare cose, tanto legati alla loro cassetta degli attrezzi da autoraccontarsi di sapere cosa serve: senza interrogare e far partecipare alcuno, magari raccogliere informazioni sfuse dal web, far vedere, mostrare foto, proporsi per la partita della Ricostruzione 40.0.”
orlando di marino

 
 
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