Storia di una ricostruzione. L’Irpinia dopo il terremoto

Stefano Ventura
Rubbettino, Soveria Mannelli 2020


Servirà ancora tempo, probabilmente, per mettere a confronto una memoria diffusa, fatta di tanti spaccati individuali, di tanti segmenti non dialoganti, che si confronti con una narrazione pubblica e mediatica forte, che si è alimentata ad ogni terremoto perché ha fatto dell’Irpinia l’esempio da non seguire. Anche se difficoltosa, però, quest’operazione meriterebbe di essere affrontata con energia.”

Alla memoria, alle sue implicazioni in una così grande tragedia è dedicato il primo capitolo di questo interessante libro, che è un serrato e documentato racconto di quanto accaduto nel dopo terremoto, di come questa esperienza abbia significativamente modificato l’Irpinia. La memoria individuale è un materiale molto labile e da maneggiare con le dovute precauzioni come ogni storico sa bene: i meccanismi selettivi che portano a nascondere o sorvolare su elementi poco piacevoli sono notori. Eppure la memoria è un elemento sempre presente in molte ricostruzioni di quella esperienza, come se ciascuno degli autori avesse la necessità di confrontarsi prima o poi con essa, con l’obiettivo di trasformarla in una memoria condivisa e collettiva: c’è la memoria di chi lo ha vissuto in prima persona, la memoria di chi lo ha percepito attraverso i racconti ed il vissuto di chi gli è accanto, la memoria dell’impegno civile di chi ha vissuto la successiva fase della ricostruzione. Nella bibliografia del dopoterremoto molto è segnato da questo tratto comune.

Stefano Ventura è un giovane ricercatore con origini teoresi, che ha dedicato molti scritti al sisma del 1980; coordina le attività di un significativo centro di ricerche, l’Osservatorio sul Doposisma della Fondazione MIdA di Pertosa, che svolge una importante azione di documentazione e di monitoraggio su quanto avvenuto su questa area.

Il libro, attraverso sette capitoli, affronta quello che è accaduto nella fase immediatamente emergenziale, con i primi soccorsi e le sistemazioni provvisorie, il ruolo delle amministrazioni pubbliche e dei vari apparati dello Stato coinvolti, quello enorme del volontariato attivo che giunse in Irpinia da ogni parte d’Italia, il ruolo ed il peso dei politici e quello dei tecnici spesso coinvolti nella duplice veste di tecnici-amministratori, gli sprechi e le infiltrazioni della malavita organizzata; una analisi attenta della legislazione che si successe a partire dalla prima Ordinanza del gennaio 1981 alla legge 219, e della copiosa normativa successiva che allargava i confini dell’area colpita aumentando a dismisura i finanziamenti, fino ad una verifica dei temi dello sviluppo connessi alla stessa legge, con le venti aree industriali previste, la loro localizzazione e realizzazione, le aspettative in termini di occupazione e quello che effettivamente è stato fatto, i problemi ambientali connessi. Tutto viene svolto con un continuo richiamo alle fonti primarie e con il supporto di una sterminata bibliografia citata e analizzata.

Come noto, l’articolo 28 della legge, subordinava l’erogazione dei finanziamenti alla approvazione degli strumenti urbanistici generali o ancor più di quelli attuativi (Piano per gli Insediamenti Produttivi, Piani di recupero ed i Piani per l’Edilizia Economica e Popolare) con i quali regolamentare la ricostruzione. Molti dei comuni ne erano sprovvisti, in particolare quelli più piccoli e dove magari maggiori erano stati i danni: le amministrazioni si attrezzarono affidando incarichi per lo più all’esterno, pagati con i fondi della ricostruzione.
Un capitolo del libro è proprio dedicato a questa fase, con una rassegna di sei piani di recupero di paesi fortemente danneggiati (S. Angelo dei Lombardi, Caposele, Conza della Campania, Bisaccia, Laviano, Teora), messi a confronto e catalogati sostanzialmente rispetto ai due termini che in qualche modo costituirono gli estremi di questa progettazione: ricostruire tutto “com’era e dov’era” o invece delocalizzare l’intero abitato distrutto. Tra questi due estremi, collocati tra la significativa esperienza di S. Angelo dei Lombardi con il recupero integrale del centro storico che ne ha salvaguardato i tratti identitari, grazie anche ad una singolare esperienza amministrativa che vide la costituzione di un Ufficio di Piano pubblico che coordinò la pianificazione, cui 78 cittadini affidarono il compito di ricostruire (gratuitamente dal punto di vista tecnico) i loro fabbricati, ed all’opposto l’esperienza di Conza della Campania, il cui edificato venne interamente spostato a valle nell’area dove era sorto un lago artificiale connesso ad una diga costruita negli anni settanta, lasciando che il centro storico divenisse un parco archeologico, grazie alla emersione, a seguito della distruzione, di importanti testimonianze storiche: tra questi due estremi si collocano le altre esperienze descritte e molte altre qui non raccontate, che pure hanno caratterizzato l’esperienza ed il vissuto di molti cittadini campani.

L’autore ne traccia un bilancio condivisibile nelle parole che seguono, che contengono uno spunto utile per altre riflessioni; molte delle vicende del post-terremoto, si svolsero nell’Italia degli anni ottanta. Una immagine spesso evocata anche negli scritti immediatamente successivi al sisma, è il confronto tra un’Italia moderna e la scoperta attraverso quella tragedia di una parte di essa che viveva ancora in gravi condizioni di disagio ed arretratezza. Chissà quanto di quella modernità arrembante incise sulla perdita di identità dei luoghi e sul gigantismo di molte delle operazioni con cui il post-terremoto viene genericamente ricordato e descritto:

“Se si volesse valutare a posteriori la validità delle scelte di recuperare i centri storici piuttosto che delocalizzarli, bisogna dire che i comuni che hanno conservato un centro storico o hanno recuperato un bene architettonico (il castello o la cattedrale), hanno conservato anche un punto di aggregazione spaziale che si è rivelato più idoneo rispetto a nuovi ambienti urbani che alle comodità funzionali non hanno quasi mai aggiunto le caratteristiche tipiche della socialità. Inevitabilmente, abitare questi due tipi di spazi così diversi crea una diversa attitudine nei cittadini. Alcune caratteristiche tipiche dei piccoli paesi (il vicinato, il passeggio serale, la dimensione della piazza), dopo la ricostruzione, sembrano più improbabili proprio a causa della struttura urbana di quei comuni. Dalle testimonianze degli abitanti di paesi ricostruiti in maniera fedele al preesistente, come Sant’Angelo dei Lombardi, emerge comunque un senso di estraneità nei confronti del nuovo paese, dei nuovi spazi e dei nuovi edifici, una nostalgia che non fa riappropriare i cittadini di quei luoghi. Inoltre, la modernità arrembante e appariscente non tenne conto, in particolare negli anni Ottanta, di un patrimonio storico-artistico e monumentale che non si riteneva importante, anzi, era visto come un ostacolo alla rinascita in nuove vesti più proiettate al futuro.”
orlando di marino

 
 
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