Senza mai arrivare in cima

Paolo Cognetti
Einaudi, Torino 2018


Da mio padre avevo imparato, molto tempo dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia. E che non resta che vagare per le otto montagne per chi, come noi, sulla prima e più alta ha perso un amico.”

Così si chiude Le otto montagne, la storia di Pietro e Bruno con cui Paolo Cognetti ha affascinato i lettori di mezzo mondo e vinto il Premio Strega nel 2017: la montagna come modo di vivere la vita era al centro di quel romanzo potente, dove si intrecciavano sentimenti eterni intorno a cui ruota la vita di ogni uomo come il rapporto con il padre e l’amicizia. Il personaggio di Pietro che trascorre molto tempo in Nepal a girare documentari, alla fine esce dalle pagine della finzione e vive in un viaggio reale che Cognetti compie in quel paese nel 2017 e che racconta nelle pagine di questo libro. Lo scrittore attraversa una regione remota, il Dolpo, alla ricerca di una montagna non ancora intaccata dalla modernità, lontana dalle carovane di alpinisti che scalano incessantemente le vette o di viaggiatori alla ricerca della “Katmandu dei Beatles”. E’ un viaggio complesso, che si prefigge di attraversare valli e passi alpini al di sopra dei cinque mila metri di altitudine, per la cui riuscita occorre una carovana fatta di uomini e di animali con cui trasportare quanto serve ad allestire un piccolo campo ogni sera e sopravvivere a quelle quote per oltre un mese: un viaggio che chiama in causa il corpo e la mente per la difficoltà di respirare, le gambe pesanti, i forti crampi allo stomaco.

Le bharal, le pecore azzurre tibetane e il leopardo delle nevi, i villaggi adornati di Chorten, le edicole simboleggianti la presenza del Buddha, i paesaggi mozzafiato, il lago di Phoksundo dove nessun pesce vi ha mai nuotato, né alcuna barca lo ha mai navigato, i fiumi di montagna che corrono verso l’Oceano Indiano: un viaggio che ha ancora in un libro un compagno inseparabile, un libro che Cognetti legge e rilegge nella sua tenda, chiuso nel sacco a pelo per difendersi da un freddo penetrante: Il leopardo delle nevi di Peter Mathiessen, con cui instaura un fitto dialogo muovendosi sulle sue orme quaranta anni dopo, a testimonianza che si viaggia anche nei ricordi, ripercorrendo passi che ci hanno preceduto. Il viaggio è una sorta di pellegrinaggio senza meta, analogo a quello compiuto dai buddhisti che girano nelle valli intorno alla loro montagna sacra, il monte Kailash su cui è proibito salire, un giro fatto in senso orario avendo la montagna sulla destra lungo il cammino, riconoscendo ad essa il valore di un asse di rotazione. Girarci intorno senza salirci, guardarlo senza prenderne fisico possesso, è un segno di rispetto che Cognetti apprezza in quella cultura.

Il contrasto tra il paesaggio di montagna incontaminato e il fondovalle chiassoso e inquinato dove è possibile bere la birra Everest nelle bottiglie riciclate delle Heineken, tra il Dolpo autentico delle valli in quota e il profondo processo di modernizzazione imposto alla Cina nel vicino Tibet assume le forme di una motocicletta che vede in un piccolo villaggio di fondovalle, simbolo di una modernità vicina, ma di cui si stenta a riconoscerne il valore e la necessità.

“Poco dopo vedemmo avvicinarsi una motocicletta. Aveva le cromature tirate a lucido e due altoparlanti che mandavano musica pop indiana. Il pilota assomigliava al suo mezzo, con il giubbetto di pelle e gli occhiali da sole e qualche tipo di gel nei capelli. Ci incrociò lentamente, scrutandoci; se voleva impressionarci di certo ci riuscì. Quando si allontanò chiesi a Sete come fosse arrivata una moto a Dho: mi disse che le portavano dalla Cina, smontandole e caricandole sui muli.
E poi dove vanno? – chiesi.
Da nessuna parte. Finito il paese finisce anche la strada.”

orlando di marino


 
 
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