Dall’India

Hermann Hesse
Garzanti, Milano 1987


Per me è meglio cercare e mai trovare,
che legarmi stretto a quanto mi è vicino,

Perché su questa terra, anche nel bene,
Sarò sempre un ospite e mai un cittadino.”
Seduto in un cinema di Singapore, Hermann Hesse guarda distratto un film, un evento surreale per questa recente invenzione europea in un posto così lontano, che gli dà la brutta impressione di assistere a qualcosa fuori contesto: sopraffatto dalla noia e dal caldo si addormenta. In sogno gli appare il padre, che gli dice “Andiamo in Asia”, che è un luogo “da qualche parte fra l’India e la Cina” più che un continente, un senso di indefinitezza che può in qualche modo dare conto anche del titolo di questo diario che potrebbe apparire fallace. Nel 1911, trentaquattrenne e già affermato scrittore, Hesse parte da Genova alla volta dell’India, un paese che tuttavia non visiterà mai: come il K. del Castello kafkiano, anche lui descriverà il suo Castello, l’India, senza entrarci, ne parlerà senza mai vederlo: il suo è un viaggio ed un racconto che lo porterà in Malesia, a Sumatra e nell’isola di Ceylon. Sarà il suo unico viaggio in un luogo che farà da sfondo ai suoi famosi romanzi successivi.
Il diario che ne esce fuori, è un diario di un europeo nordico, alla ricerca di un mondo meno rigido, più libero nella impostazione sociale e nel modo di vivere, a contatto con una natura selvaggia e indomabile, con una religiosità anche qui formale ma ancora viva e densa di significato. L’Oriente, come noto, era una questione di famiglia per Hesse con il nonno missionario protestante in India e la madre che qui vi era nata; questi luoghi sono visti e raccontati senza complessi, da un lato senza dichiararne la propria subalterna e colpevole adesione a un modello di vita diverso, dall’altro senza atteggiamenti di superiorità, in un periodo e in un contesto dove sono le nazioni europee ad assoggettare con pugno fermo queste colonie lontane.
Gli antichi abitanti malesi che scalfiscono senza intaccarla una millenaria foresta pluviale per ricavare il legno ferro da vendere in Europa, le abluzioni quotidiane degli abitanti del luogo che hanno una forte cura per l’igiene personale, le calde e buie notti tropicali caratterizzate da zanzare fastidiose e violenti temporali, gli europei che a qualunque titolo siano lì presenti sembrano usciti da un’operetta lirica, l’incessante andare degli asiatici che Hesse ammira, lui che dopo questo viaggio si ritirerà nel borgo di Montagnola per restarvi l’intero resto della sua vita: il suo unico atteggiamento di ripulsa dichiarato è per un insopportabile odore di cocco e citronella di un unguento con cui sono soliti cospargere il proprio corpo i nativi di questi luoghi.

Salito in cima alla più alta vetta dell’isola di Ceylon, Hesse contempla il paesaggio, e coglie un aspetto del suo agire e del suo essere lì, del suo guardare a quel mondo con la lucida consapevolezza che altrove e non lì sarà il luogo e la dimensione del suo agire e della sua vita, riversandogli il senso di uno spaesamento che caratterizzerà molte delle sue pagine, in quell’eterno oscillare tra il pensiero e l’azione, tra la vita attiva e quella contemplativa che sarà reificata nella storia di Narciso e Boccadoro o nel surreale Magister Ludi Joseph Knecht con il suo intellettualistico giuoco delle perle di vetro che gli valse il Nobel nel 1946:

Soltanto quassù, nell’aria fredda e fra i banchi di nuvole delle aspre cime, compresi con estrema chiarezza che tutto il nostro essere e la nostra civiltà nordica hanno le loro radici in paesi più rozzi e più poveri. Noi veniamo al Sud e in Oriente pieni di nostalgia, spinti da un oscuro, grato presagio di patria, e qui troviamo il paradiso, la pienezza e la ricca abbondanza di tutti i doni della natura, troviamo gli schietti semplici, infantili abitatori del paradiso. Ma noi stessi siamo diversi, qui siamo stranieri e senza diritto di cittadinanza, da un pezzo abbiamo perduto il paradiso e quello nuovo che possediamo e che vogliamo realizzare non si trova all’Equatore e nei caldi mari d’Oriente, è in noi e nel nostro futuro di uomini di Nord.”
orlando di marino


 
 
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