Se non la realtà

Tommaso Landolfi
Adelphi, Milano 2003


Ma che cosa era poi il Petrarca, un cantante è vero?”
Nella bella casa di Arquà dove il poeta visse gli ultimi della sua vita, tra i versi di Alfieri alle pareti e la sua gattina imbalsamata, Tommaso Landolfi trascorre una delle sue giornate, accompagnata dalla guardiana che gli racconta episodi delle visite delle frotte di turisti che vi arrivano. Sarà uno dei piccoli viaggi fatti tra il 1952 e il 1959, pubblicati in quel particolare giornale che era Il Mondo di Mario Pannunzio e che questo testo raccoglie; viaggi attraverso città e piccoli borghi utilizzando esclusivamente mezzi pubblici, inseguendo corriere e coincidenze ferroviarie nell’Italia immediatamente precedente il boom economico.

Non hanno più meta le nostre pigre passeggiate, se non la realtà”: un verso dello scrittore posto in epigrafe del libro gli dà il titolo, ma tuttavia la realtà che rappresenta e che cerca in questo andare è fatta di persone più che di luoghi, di volti più che di paesaggi. E sono volti e persone, raccontate con il suo linguaggio poetico e spesso surreale, quel linguaggio che anima la sua vasta produzione letteraria.

Lo sguardo altero delle giovinette di Siena, le alterne vicissitudini dei giocatori al Casinò di San Remo, gli amanti giovinetti nel paradiso naturale di Sant’Agata sui due Golfi, la compagna di studi incontrata dopo anni casualmente ad Orbetello, la famiglia nel castello di Gradara sospesa sulla soglia delle nuove sirene del consumismo, il tipo allampanato che dissacra nella sua descrizione della cerimonia i riti del Giovedì Santo a Terracina: sono alcuni dei volti che questo “viaggiatore ozioso” incontra nel suo percorso, volti che attentamente studia e che saranno i veri protagonisti di queste pagine, come accade in quei romanzi russi che tanto aveva amato.

Landolfi era originario di Pico, un piccolo paese della provincia di Frosinone, che prima della riforma fascista era in quella della Terra di Lavoro. Nelle pagine del suo viaggio dedicato alla città frusinate, esprime la condizione di questo spaesamento, frutto delle suddivisioni amministrative che spesso passano sopra antiche storie di identità e di appartenenza, una caratteristica che un pò rivediamo nella nostra fragile identità regionale, profondamente ancorata alle città e a i luoghi, più che alla Campania stessa.
Senza dubbio il mio paese che era sempre stato nella provincia di Caserta, è attualmente nella provincia di Frosinone. Ma che perciò? Né la sua lingua, prima che il triste evento si producesse, né le sue tradizioni ebbero mai nulla a che vedere con ciò che ancora qualche vecchio chiama «lo stato romano»: di qua Longobardi, Normanni, Angioini, di là papi e loro accoliti; di qua una lingua di tipo napoletano-abruzzese, di là una specie di romanesco suburbano; a non tener conto poi di tutto il resto. Si intenda comunque: io non sto ponendo qui una questione più o meno personale, ma prendendo le parti di tutti quei paesi e di tutti quelli che un dissennato potere ha strappato o allontanato dal loro centro naturale. Che poi questi paesi abbandonati al nemico vadano sposando, per la bestiale insensibilità di molti loro abitanti, i costumi dell’attuale capoluogo, è altro discorso: tutto si perde a questo mondo, «tutto svanisce come bruma o sogno».”
orlando di marino


 
 
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